Il testo della lettera inviata al premier/Un contributo al dibattito interno al Pri Giorgio La Malfa: deluso dal governo Berlusconi Pubblichiamo la lettera che l’on. Giorgio La Malfa ha inviato al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in data 4 settembre 2009 e che può rappresentare uno dei contributi al dibattito interno al partito in vista del prossimo Congresso, così come deliberato dalla Direzione Nazionale nel corso della sua ultima riunione. Caro Presidente, la politica economica fu, all’indomani dell’ingresso dell’Italia nell’euro, uno dei motivi determinanti che mi indussero a proporre al PRI di lasciare la coalizione di centrosinistra e di entrare nell’alleanza da te guidata. Ritenevo che la partecipazione all’euro rendesse assolutamente indispensabile e urgente una profonda svolta nell’impostazione della politica economica italiana. L’Italia non avrebbe potuto rinunciare a entrare nell’euro, o rinviarne l’adesione, senza recidere i profondi legami con l’Europa che sono stati fondamentali, sul piano economico ma anche su quello politico, durante tutto il dopoguerra. Ma, da quel momento in avanti, non sarebbe stato più possibile tutelare la competitività della base industriale del nostro Paese attraverso le periodiche correzioni del tasso di cambio che erano divenute di fatto una delle componenti della politica economica a partire dagli anni ‘70. Per questo diveniva necessaria una politica economica all’altezza dei problemi da affrontare. Problemi, invero, molto difficili. Dall’inizio degli anni ‘90 l’Italia mostrava un preoccupante rallentamento del tasso di crescita, essenzialmente dovuto a una crescente perdita di competitività sui mercati mondiali. Il rischio era quello di perdere, una volta entrati nel regime della moneta unica, quella capacità di esportazione che aveva, per tutto il corso del dopoguerra, fornito un sostegno, sia quantitativo che qualitativo, allo sviluppo del reddito e dell’occupazione. Il mio giudizio politico era che il centrosinistra - cui pure andava attribuito il merito della decisione di aderire all’euro - non avesse la visione esatta della portata dei problemi da affrontare e che, comunque, fosse troppo frammentato all’interno per poter condurre una politica chiara e coerente. La conferma della validità di questi giudizi è del resto venuta dalla seconda esperienza di governo del centrosinistra, fra il 2006 e il 2008, giudicata con estrema severità dagli stessi componenti di quella alleanza. Mi sembrava invece che il programma della coalizione che tu avevi promosso partisse da una visione più chiara dei rischi e delle sfide che si ponevano all’Italia a seguito dell’ingresso nell’euro. Non mi convinceva e mi preoccupava una specie di antieuropeismo di maniera, frequente sia negli esponenti di Forza Italia, sia in altre componenti della coalizione, che rischiava di isolarci in seno all’Unione, come è evidentemente avvenuto e come continua ad avvenire con toni ed argomenti che a me, che provengo da una tradizione europeista, creano frequenti, e crescenti, problemi. L’analisi, tuttavia, del problema economico e le possibili vie di soluzione che il centrodestra prospettava mi sembravano più promettenti. La tua stessa esperienza personale di imprenditore sembrava poter garantire una maggiore consapevolezza dei termini effettivi delle questioni da affrontare. Le due linee portanti che il tuo programma enunciava erano la riduzione della pressione fiscale e le liberalizzazioni dell’economia. Ovviamente, viste le dimensioni del debito pubblico accumulato, la riduzione delle imposte presupponeva un’opera attenta di riduzione della spesa corrente di tutte le amministrazioni pubbliche, ma questo aspetto del programma appariva coerente con la visione ‘liberale’ di cui ti dichiaravi erede ed interprete. Sono passati molti anni da allora. Nel quinquennio 2001-2006 il centrodestra ha avuto la responsabilità del Governo e la ha ripresa, in condizioni di forza ancora maggiori, nel 2008. È una constatazione amara, ma inevitabile, che il programma originario del 2001, ribadito nel 2008, è rimasto sostanzialmente inattuato. Ancora più grave è che non si è neppure tentato di fare ciò che si era promesso. Fra il 2001 e il 2006 non vi è stata alcuna riduzione del peso della spesa pubblica corrente; la pressione fiscale è rimasta quella che era; il progetto di liberalizzazioni che io stesso avevo sottoposto al Consiglio dei Ministri come responsabile per il Governo italiano del progetto "Lisbona" dell’Unione Europea, venne bruscamente accantonato in vista delle elezioni (poi perse) del 2006 e non è stato certo ripreso in questa legislatura. Ancora più deludente il bilancio di questo primo anno e mezzo di Governo, fra il 2008 ed oggi sul piano della politica economica. Accantonato ogni progetto ambizioso di riordino della Pubblica Amministrazione per ridurre la spesa corrente e per potere procedere alla riduzione della pressione fiscale, il Governo ha finito per limitarsi a una politica del giorno per giorno. La malattia dell’economia italiana è grave e lo dimostra il fatto che dopo essere cresciuti meno di tutti o quasi i paesi della UE, oggi subiamo la maggiore flessione in termini reali del nostro reddito nazionale ed abbiamo le più deboli prospettive di ripresa nel 2010. L’affermazione stucchevole ripetuta da parte di esponenti del Governo che l’Italia sta meglio degli altri, non è fondata nei fatti, non è una manifestazione di fattivo ottimismo: è un ostinato rifiuto di guardare la realtà per come essa è. Copre una colpevole inerzia. Le conseguenze di questa paralisi del Governo si misurano non solo nella caduta del reddito, ma quel che è peggio nell’esplosione del fabbisogno pubblico. In questi mesi, il rapporto fra il deficit di bilancio e il reddito nazionale è schizzato in alto, così come torna e esplodere il debito pubblico. Quando l’economia mondiale uscirà dalla crisi, l’Unione Europea tornerà a chiedere il rispetto dei vincoli del Patto di Stabilità e noi saremo costretti a mantenere la pressione fiscale ai livelli insostenibili di oggi. Abbiamo richiamato inutilmente l’attenzione del Governo sul tema dello spostamento in avanti dell’età di pensionamento che avrebbe avuto un tale effetto a medio termine sui conti pubblici da consentire nell’immediato di lanciare una più sostanziosa politica di sostegno all’economia che tutte le categorie economiche e in particolare la Confindustria hanno sollecitato. Il tema è stato lasciato cadere, salvo un accenno tardivo in queste ultime settimane. Non abbiamo condiviso, né condividiamo, la cosiddetta riforma federalista dello Stato dalla quale scaturiranno inevitabilmente, per il modo in cui essa è articolata, nuovi oneri per la finanza pubblica. Abbiamo sostenuto nel dibattito parlamentare che nell’introdurre il cosiddetto federalismo fiscale bisognava partire da una razionalizzazione delle strutture pubbliche al fine di ridurre i costi della macchina pubblica, ma ogni richiamo è stato inutile benché temi come l’abolizione delle province fossero addirittura compresi nel programma elettorale della coalizione. Avete deciso di assegnare maggiori risorse alle regioni del centro-nord, impegnandovi, nel contempo, con le regioni del Mezzogiorno a non ridurre le dotazioni di cui esse attualmente dispongono. In assenza di una riorganizzazione e semplificazione della macchina dello stato, questa impostazione comporterà che uno Stato, che dovrà devolvere al centro-nord maggiori risorse fiscali, dovrà farsi carico, altresì, di garantire alle regioni meridionali le risorse promesse. Non potrà che seguirne un aumento del deficit o della pressione fiscale. Ma siamo poi sicuri che l’assetto regionale attuale non costituisca esso stesso un problema? Hanno senso regioni con 5 ed oltre milioni di abitanti accanto a regioni con meno di 1 milione di abitanti? Non è un venir meno dello Stato ai suoi doveri elementari che l’inefficienza di alcune regioni possa mettere in pericolo la salute dei loro cittadini come avviene nel campo della sanità? Per una maggioranza che ha l’ambizione di durare per un’intera legislatura e che parla spesso di riforme costituzionali forse sarebbe necessario riflettere su alcune di queste questioni di fondo. Richiamammo più volte, per iscritto e in colloqui diretti, la tua attenzione fra il 2001 e il 2006 sul tema del Mezzogiorno sostenendo che era necessaria una riflessione attenta sui termini attuali della questione meridionale per predisporre le azioni necessarie. A nulla valse quel richiamo, per scoprire oggi da parte del Governo, all’improvviso, che il Mezzogiorno costituisce un fianco scoperto per la coalizione e che ciò impone di improvvisare una qualche politica. Ma senza una analisi approfondita delle cause del persistente ritardo del Mezzogiorno e senza mutare i canali istituzionali della spesa pubblica, la qualità di essa non è destinata certo a migliorare. Il rischio è quello di alimentare maggiori sprechi e maggiore inefficienza. Pensiamo che un Governo eletto con un consenso così ampio nel 2008 e accompagnato, almeno inizialmente, da un vastissimo sostegno della pubblica opinione non dovesse sostanzialmente adagiarsi in una politica del giorno per giorno di basso profilo. Ci sembra di dover dire onestamente che proprio sul terreno economico la credibilità del Governo sia assai ridotta. Alla lunga tu stesso ne subirai i riflessi. Crediamo che sia molto difficile, presa e percorsa una strada errata, riuscire a correggerla. Ma naturalmente saremmo ben lieti se ciò fosse possibile ed avvenisse. Il tempo entro il quale l’Italia deve cambiare strada si sta facendo sempre più breve. Il mondo non attende le nostre pigrizie e le nostre esitazioni. Paesi nuovi si affacciano sulla scena con capacità di lavoro, di produzione, di esportazione destinate a ridurre sempre più i nostri spazi. Le imprese soffrono di condizioni di costi troppo elevati. La pressione fiscale va ridotta. La scuola italiana, l’Università, la ricerca versano in condizioni pressoché disperate: per assegnare loro nuove risorse la spesa corrente deve essere fermata. L’equilibrio di lungo periodo del sistema pensionistico richiede urgentemente l’allungamento dell’età pensionabile. La pubblica amministrazione è insopportabilmente estesa e costosa. Le occasioni di corruzione offerte dal sistema sono troppe. Può l’attuale maggioranza cambiare strada? Sei tu personalmente in grado di assicurare un cambiamento radicale di rotta e procedere di conseguenza? La collaborazione di questi anni mi spinge a porre a te il problema. Ho accennato al tema europeo come un argomento sul quale ormai è frequente per noi non poter condividere le prese di posizione di molti esponenti del Governo e della maggioranza. Ma anche altri aspetti della politica estera, su cui tra il 2001 e il 2006 fummo in piena sintonia con te, sollevano in noi dei dubbi. Una lunga serie di errori sta mettendo in crisi quel delicato equilibrio fra lo Stato laico e la Chiesa cattolica che fu uno dei frutti migliori della collaborazione fra la DC e i partiti laici lungo tutto il corso del dopoguerra. Di altro preferisco tacere. Il PRI è erede di una tradizione politica e culturale che ha accompagnato la storia unitaria dell’Italia; qualora dovesse maturare un giudizio sui problemi istituzionali, economici, internazionali diverso da quello della maggioranza con la quale ha lealmente collaborato in questi anni, esso non potrebbe che trarne le conclusioni e cercare di raccogliere nel Paese il sostegno per una svolta politica che è, per le ragioni che ho detto, tanto urgente quanto indispensabile. Entro la fine dell’anno è previsto lo svolgimento del nostro Congresso. Ho ritenuto che i rapporti di collaborazione in questi anni ed anche il rapporto umano che si è stabilito fra noi mi imponessero di comunicarti in anticipo l’orientamento che ho maturato e la proposta che, conseguentemente, avanzerò nel corso del nostro Congresso. Ovviamente, ho tenuto informato delle mie riflessioni e, ora, di questa mia lettera il segretario del Partito, on. Nucara. Cordialmente, Giorgio La Malfa |